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Dylan Dog 280 - Mater Morbi, di G. Del Duca (Ubcfumetti.com)

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Stuart Tusspot
CAT_IMG Posted on 20/1/2010, 14:19     +1   -1




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Tra tutti gli incubi che Dylan Dog ha affrontato nella sua onorata carriera, la malattia ha avuto finora un ruolo minore. È stata affrontata in alcune situazioni (dal memorabile n.88 "Oltre la morte" per arrivare al più recente n.244 "Marty"), ma in quelle storie la vittima era sempre una persona vicina a Dylan. Forse non è un caso, forse far affrontare direttamente a Dylan un incubo così angosciante e terribilmente reale ha fatto tremare i polsi a molti sceneggiatori, e in fondo la cifra stilistica della serie ha sempre consistito nel creare un filtro attraverso cui vedere la realtà piuttosto che tuffarcisi dentro.
La sfida è raccolta da Roberto Recchioni, alla sua seconda prova dylaniata sulla serie regolare, che non esita a far affondare Dylan in questo incubo. Recchioni può assumersi questo rischio dal momento che la storia prende le mosse dalla sua esperienza personale, quindi oltre alla cognizione di causa c'è anche una forte componente di vissuto personale che fa da telaio alla storia. Ma una buona storia non è necessariamente una storia buona per Dylan Dog.
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L'IO NARRANTE. La storia della critica, letteraria e non solo, è stata attraversata dal dibattito sulla necessità, al fine di giudicare un'opera, di conoscere la biografia del suo autore. Era questa la posizione del critico Charles de Sainte-Beuve, contro il quale si scagliò Marcel Proust, secondo cui invece l'opera è il prodotto di un "io" diverso da quello che si manifesta nel privato di un autore. Il grande critico e linguista Roland Barthes arrivò a parlare di "morte dell'autore", espressione mai come in questo caso da evitare.
"Mater Morbi" rappresenta un caso a parte, perchè nel momento in cui si legge la presentazione della storia nell'Horror club, l'opera diventa inscindibile dalla biografia del suo autore. La storia è, in buona sostanza, figlia dell'esperienza personale di Roberto Recchioni, che come ci viene spiegato è affetto da una malattia congenita.
La genesi dell'opera non è un mistero per chi segue Recchioni sul suo blog, o per chi ha assistito a interviste e conferenze stampa dell'autore, ma inserire questa specifica nella presentazione è una scelta redazionale molto "pesante", sia perchè mira ad informare anche i lettori meno attenti (quelli che a malapena guardano il nome dello sceneggiatore di un albo), sia perchè si tratta di una scelta assolutamente inusuale, adottata in precedenza solo sporadicamente e non in modo così diretto per Tiziano Sclavi, un altro i cui lavori (anche al di là di Dylan Dog) sono stati fortemente influenzati dalle vicissitudini private, anche se di altro tipo.
Questa specifica va ovviamente ad influenzare l'animo con cui si legge la storia, e l'effetto che se ne trae. Perché "Mater Morbi" è una storia dura e angosciante, la storia di un incubo reale che non termina a pagina 98 e che esce dalle pagine dell'albo, una storia che colpisce al cuore, allo stomaco e anche più in basso, ma per motivi che non attengono del tutto alla sfera narrativa.
"Mater Morbi" non si può definire interamente un'opera di fiction, ma quasi una docufiction, un racconto autobiografico in cui il nome e le fattezze del protagonista sono fittizie, ma il resto - quantomeno nella prima metà dell'albo - è reale.
Le sequenze iniziali dell'albo, ma anche buona parte delle altre, riescono nell'intento di essere disturbanti e angoscianti, sicuramente l'incubo peggiore apparso sulla serie da tempo, ma tramite meccanismi di non-fiction. In altre parole, l'angoscia che provoca non è dovuta all'immedesimazione nel personaggio Dylan Dog, e neppure alla paura di poter vivere una situazione analoga, ma alla consapevolezza che ciò che vediamo è terribilmente reale, e l'interrogativo su quanto sia effettivamente stato vissuto dall'autore accompagna la lettura fino alla fine, ponendo sullo sfondo l'attenzione verso il titolare di testata.
UNA STORIA DIVISA IN DUE. In "Mater Morbi" non c'è indagine, non c'è cliente, non ci sono quasi altri personaggi, ad esclusione della madre di tutte le malattie, e si può quindi ascrivere questo n.280 alla lista di storie "su" Dylan Dog piuttosto che "di" Dylan Dog. Ci sono dei punti in comune con alcuni albi di Paola Barbato, tra cui proprio il numero precedente a questo, "Il giardino delle illusioni". Ma a ben guardare c'è una grossa differenza di base tra i due approcci: la Barbato usa Dylan come uno schermo per la realtà, mettendo sempre una certa distanza tra sè e il personaggio, mentre Recchioni si immedesima totalmente in Dylan, facendolo vivere e agire per suo conto, esattamente come faceva Sclavi. Scelta coraggiosa che però espone Recchioni a rischi altissimi.
Il paragone con Sclavi è certamente ingiusto, ma anche inevitabile soprattutto in una storia come questa. Quando Sclavi parla(va) per bocca di Dylan Dog c'era una comunione totale tra autore e personaggio. Quando Dylan parla con la voce di Recchioni, l'impressione è che le parole non provengano da lui. Questo non è un problema nuovo nella serie, ma in questo caso la particolare struttura della storia lo rende evidente.
Lo sceneggiatore utilizza in abbondanza il dialogo interiore tramite didascalie, guadagnando in immediatezza, ma accrescendo anche la sensazione che chi parla "davvero" non sia Dylan.
C'è anche un'altra differenza rispetto al papà di Dylan Dog: Sclavi utilizzava Dylan per esorcizzare i suoi demoni, Recchioni invece li porta in scena mostrandoli sotto forma narrativa, ma senza l'elemento catartico e il ricorso salvifico all'ironia. Anche la figura centrale di Mater Morbi sembra essere più una sublimazione che un'esorcizzazione della malattia.
L'apparizione di Mater Morbi a pag. 51 segna una cesura nella storia, dando il via a una seconda parte più prettamente dylandoghiana, ma meno efficace della prima. L'allegoria servita da Recchioni non è incisiva, la storia e i personaggi si dipanano su binari di estrema prevedibilità, fino ad un epilogo quasi manieristico. La stessa figura di Mater Morbi, al di là di una rappresentazione grafica senza dubbio di grande impatto e di una caratterizzazione che vira al grottesco spinto, non presenta elementi di particolare originalità, sia rispetto alle precedenti creazioni dell'autore che alle aspettative di partenza.
Del riferimento al tema etico del fine vita e dell'accanimento terapeutico si parla nella scheda dell'albo.
 
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