| GLI ENEIDI ESULI ( 3. 1 - 12) Dopo che piacque ai celesti distruggere la potenza dell'Asia ed il popolo incolpevole di Priamo, e la superba Ilio cadde e tutta la nettunia Troia a terra fuma, siamo costretti dai presagi degli dei a cercare diversi esili e terre deserte, e costruiamo la flotta sotto la stessa Antandro ed i monti del frigio Ida, incerti dove i fati portino, dove sia dato fermarci, e raccogliamo uomini. Era appena iniziata la prima estate ed il padre Anchise ordinava di dare le vele ai fati, quando piangendo lascio i lidi ed i porti della patria e le piane dove fu Troia. Esule son portato in alto mare coi compagni e col figlio ed i grandi dei penati.
ORRIBILE OMBRA DI POLIDORE (3. 13- 68) Una terra Mavorzia lontano dalle vaste pianure è abitata, l'arani i Traci, governata un tempo dal duro Licurgo, antica ospitalità e penati alleati di Troia finchè ci fu fortuna. Son portato qui e sul lido ricurvo fondo le prime mura, entrato con fati avversi, e dal mio nome formo il nome di Eneadi. Portavo doni dacri alla madre dionea ed ai divini auspici delle imprese iniziate, ed al celeste re dei celicoli offrivo un toro splendente sul lido. C'era per caso un'altura, sulla cui sommità virgulti di corniolo ed un mirto irto di fitte lance. Mi avvicinai tentando di strappare da terra una verde pianta, per coprire di rami frondosi gli altari, e vedo un prodigio spaventoso e mirabile a dirsi. Infatti la pianta che per prima, rotte le radici, è divelta, a questa si sciolgono gocce di nero sangue e macchiano la terra di marcio. Un freddo fremito mi scuote le membra ed il sangue gelido scorre con terrore. Di nuovo proseguo a strappare il flessibile rametto di un'altra e scoprire del tutto le cause latenti; nero sangue esce anche dalla corteccia dell'altra. Meditando molto in cuore veneravo le Ninfe agresti ed il padre Gradivo, che protegge i campi getici, favorevolmente assecondassero le visioni e togliessero il presagio. Ma dopo che con maggior sforzo afferro il terzo rametto e con le ginocchia lotto con la sabbia avversa, - parlare o tacere?- si sente dalla profondità dell'altura un gemito lacrimevole e la frase data sale alle orecchie: "Perchè, Enea, torturi un infelice? orma risparmia un sepolto, risparmia di macchiare le pie mani. Troia non mi pose estraneo a te o questo sangue non emana da un legno. Ahimè fuggi terre crudeli, fuggi un lido avido: io son Polidoro. Qui trafitto mi coprì una messe ferrea di dardi e crebbe in acute lance." Allora davvero oppressa la mente da dubbioso terrore stupii si drizzarono i capelli e la frase si bloccò nella gola. Questo Polidoro un tempo lo sventurato Priamo l'aveva affidato da crescere al re tracio di nascosto con una gran quantità d'oro, diffidando orma per le armi della Dardania e vedendo che la città era cinta d'assedio. Quello, come furon rotte le forze dei Teucri e la fortuana andata, seguendo le sorti d'Agamennone e le armi vincitrici rompe ogni norma: sgozza Polidoro e s'impossesso dell'oro con la violenza. A cosa non spingi i cuori mortali, maledetta fame di oro. Dopo che la paura lasciò le ossa, riferisco i prodigi degli dei ai capi scelti del popolo e prima al padre, e chiedo quale sia il parere. Per tutti una sola volontà, andarsene dalla terra scellerata, lasciare l'ospitalità macchiata e dare gli Austri alle flotte. Così celebriamo il funerale per Polidoro, e molta terra si raccoglie per il tumulo; per i Mani si ergon gli altari tristi per le fosche bende ed il nero cipresso, e le Iliadi attorno secondo il rito, sciolte la chioma; offriamo vasi spumanti di tiepido latte e tazze di sangue sacro, copriamo l'anima col sepolcro e lo chiamiamo per l'ultima volta a gran voce.
L'ORACOLO DI APOLLO ( 3. 69 - 120) Poi quando c'è la prima fiducia nel mare ed i venti rendono le acque placate ed il leggero Austro crepitando invita al largo, i compagni traggono le navi e riempion le spiagge; vi allontaniamo dal porto e terre e città si ritirano. In mezzo al mare è abitata una terra sacra molto gradita alla madre delle Nereidi ed a Nettuno egeo, che il pio arcotenente legò a Micono, poichè errava attorno a lidi e spiagge dall'alta Giaro, concesse che immobile fosse coltivata e disprezzasse i venti. Qui son portato, questa placidissima ci accolse stanchi nel porto sicuro; usciti veneriamo la città di Apollo. Il re Anio, lo stesso re di persone e sacerdote di Febo, coronato le sacre tempia di bende e d'alloro accorre; riconobbe il vecchio amico Anchise. Giungiamo le destre per l'ospitalità ed entriam nelle case. Veneravo i templi del dio costruiti su antica roccia: "Dà una casa propria, Timbreo; agli stanchi dà le mura e una stirpe e una città duratura; serba la seconda Pergamo diTroia, i resti dei Danai e del crudele Achille. Chi seguiamo? o dove comandi d'andare? dove porre le sedi? Dà, padre, un presagio e penetra nei nostri cuori." Avevo appena detto così: si vide tutto tremare, le soglie e l'alloro del dio, muoversi tutto attorno il monte e mugghiare il tripode, squarciati i penetrali. Inchinati ci volgiamo a terra ed una voce si sente alle orecchie: "Dardandi duri, la terra che per prima vi creò dalla stirpe dei padri, la stessa vi accoglierà reduci nel fertile seno. Ricercate l'antica madre. Qui la casa d'Enea dominerà tutte le spiagge ed i figli dei figli e chi nascerà da essi." Così Febo; nacque una enorme gioia con unito tumulto, e tutti chiedon quali sian quelle mura, dove Febo chiami gli erranti ed ordini che tornino. Allora il padre meditando i ricordi degli uomini antichi "Udite, o capi, dice, ed imparate le vostre speranze. Creta, isola del grande Giove, giace in mezzo al mare, dove è il monte ideo e culla del nostro popolo. Abitano cento grandi città, regni ricchissimi, Donde il massimo padre, Teucro, se ricordo bene le storie, fu prima condotto nelle spiagge retee, e vi volle la sede per il regno. Non erano ancora fondate Ilio e le rocche pergamenee; abitavan in fondo alle valli. Di qui la madre abitatrice di Cibelo ed i bronzi coribantici ed il bosco ideo, di qui i fidati silenzi per i riti, ed i leoni aggiogati si sottoposero al cocchio della padrona. Perciò coraggio, dove gli ordini degli dei guidano, seguiamo: placgiamo i venti e cerchiamo i regni cnosii. Non distano lungo spazio: solo Giove ci assista, la terza luce porterà la flotta sulle spiagge cretese." Detto così, immolò sugli altari giuste vittime, un toro a Nettuno, un toro a te, splendido Apollo, nero animale a Tempesta, agli Zefiri propizi uno bianco.
LA PESTILENZA ( 3.121 - 146) Vola la fama che il capo Idomeneo cacciato sia partito dai regni paterni e deserti i lidi di Creta, la casa manca di nemico e le sedil asciate aspettano. Lasciamo i porti di Ortigia e voliamo sul mare e passiamo Nasso percorsa da Bacco sui gioghi e la verde Danusa, Olearo e la nivea Paro e le Cicladi sparse pel mare, ed i flutti spinti da terre frequenti. s'alza il grido marinaresco con vario scontro: i compagni esortano a cercare Creta e gli antenati. Il vento sorgente da poppa asseconda i partenti, e finalmente accostiamo alle antiche spiagge dei Cureti. Quindi avido costruisco le mura della città bramata e la chiamo Pergamea ed esorto il popolo, lieto per il nome ad amare i focolari ed innalzare sopra i tetti la rocca. E ormai quasi le poppe eran tirate sul secco lido, la gioventù intenta a nozze e campi nuovi, davo leggi e case, quando d'improvviso giunse una peste, corrottasi la regione del cielo, funesta e miserevole per i corpi, gli alberi ed i seminati annata mortale. Lasciavano le dolci vite o trascinavano malati i corpi; allora Sirio bruciaca gli sterili campi, le erbe inaridivano e la messe malata rifiutava il nutrimento. Di nuovo il padre esorta, ripassato il mare, ad andare da Apolo e dall'oracolo di Ortigia ed invocare perdono, quale fine porti alle deboli sorti, donde ordini di provare l'aiuto delle fatiche, dove volger la rotta.
I SACRI PENATI ( 3. 147 - 191) Era notte e il sonno in terra possedeva i viventi: le statue sacre degli dei ed i penati frigi, che con me avevo tratto da Troia di mezzo alle fiammme, sembrarono davanti agli occhi giacenti nel sonno ergersi chiari nella forte luce, dove la luna piena si spandeva attraverso le finestre aperte; allora così parlavano lenivano gli affanni con queste frasi: "Quello che apollo sta per dirti, giunto ad Ortigia, qui predice ed ecco in piùinvia noi alle tue porte . Noi dopo aver seguito te e le tue armi, noi dopo aver percorso il rigonfio mare con le flotte sotto di te, proprio noi innalzeremo alle stelle i nipoti venturi e daremo il potere alla città. Tu prepara mura grandi ai grandie no lasciare la lunga fatica della fuga. Le sedi son da cambiare. Il delio non ti consigliò questi lidi o Apollo comandò di fermarti a Creta. C'è un luogo, i Grai lo chiamano col nome di Esperia, terra antica, potente per armi e ricchezza di terra; gli uomini Enotri la abitarono; ora è fama che i discendenti abbiam chiamato Italia il popolo dal nime del capo. Queste per noi le sedi proprie, di qui è nato Dardano ed il padre Iasio, da questo principe la nostra stirpe. Orsù alzati e lieto riferisci al vecchio padre queste frasi da non dubitare: e Corito cerchi le terre ausonie; Giove ti rifiuta i campi dittei." Attonito per tali visioni e richiamo degli dei - nè quello era sonno, ma mi sembrava riconoscere i volti e le chiome velate ed i volti presenti- allora un gelido sudore emanava da tutto ilcorpo strappo dai letti il corpo e tendo supine al cielo le mani con invocazione e libo sui fuochi dono inviolati. Lieto per l'offerta compiuta rendo informato Anchise e per ordine espongo la cosa. Riconobbe la duplice prole ed i due padri, e che s'era ingannato per il nuovo errare dei luoghi. Allora ricorda: "Figlio, tormentato dai fati iliaci, la sola Cassandra mi prediva tali sorti. Ora riconosco che prediceva queste cose dovute alla nostra stirpe spesso nominava l'Italia, spesso i regni italici. Ma chi poteva credere che i Teucri sarebbero giunti ai lidi d'Esperia? o chi la profetessa Cassandra poteva convincere? Cediamo a Febo e istruiti seguiamo cose migliori". Così dice e tutti festanti obbediamo al discorso. Lasciamo anche questa sede e, perduti pochi, diamo le vele e con il vcavo legno corriamo il vasto mare.
LA FURIOSA TEMPESTA ( 3. 192 - 208) Dopo che le barche presero il largo e non appare più alcuna terra, e cielo ovunque e ovunque mare, allora mi sovrastò sul capo una livida pioggia portando notte e tempesta e l'onda inorridì oer le tenebre. Subito i venti sconvolgono il mare e grandi ondate sorgono, dispersi siamo sbattuti nel vasto gorgo; i nembi avvolseroil giorno e l'umida notte tolse il cielo, squarciate le nubi, i fulmini raddoppiano, siamo deviati dalla rotta ed erriamo sulle cieche onde. Lo stesso Palinuro dice di non distinguere giorno e notte nel cielo e di non ricordare la via in mezzo all'onda. Così per tre interi soli nella cieca caligine erriamo pel mare, altrettante notti senza stella. Al terzo giorno finalmente dapprima fu vista ergersi la terra, lontano aprirsi i monti ed alzarsi il fumo. Cadono le vele, ci drizziamo sui remi; non un indugio, i marinai sforzandosi muovono spume e spazzano le livide onde.
LA TERRIBILI ARPIE ( 3. 209 - 269) Anzitutto mi accolgono, salvato dalle onde, i lidi delle Strofadi. Le isole dette Strofadi dal nome graio stanno nel grande Ionio, che la crudele Celeno e le altre Arpie abitano, dopo che fu chiusa la casa Fineo e per paura lasciarono le prime mense. Non c'è mostro più funesto di quelle, nè alcuna peste peggiore ed ira degli dei si alzò dalle onde stigie. Virginei volti di uccelli, fetidissimo flusso di ventre e mani uncinate e facce sempre pallide per fame. Come qui portati entrammo nei porti, ecco vediamo grassi armenti di buoi qua e là nelle piane ed un gregge di capre per l'erba senza custode. Ci buttiamo col ferro ed invochiamo gli dei e lo stesso Giove per la parte ed il bottino; poi sulla spiaggia ricurva collochiamo letti e banchettiamo con cibi abbondanti. Ed improvvise con orribile volata dai monti le Arpie si presentano e scuotono le ali con grandi schiamazzi, saccheggian le vivande e coll'immondo contatto sporcano tutto; poi lo stridio crudele tra l'orribile odore. Di nuovo in un lungo riparo sotto una rupe incavata [chiusa attorno da alberi ed ombre raggelanti] prepariamo le mense e poniamo sugli altari il fuoco. Di nuovo da parte diversa del cielo e da ciechi nascondigli la turba rimbombante vola attorno alla preda con zampe adunche, con la bocca sporcò i cibi: allora ordino ai compagni che prendano le armii, e la guerra è da combattere con gente crudele. Non diversamente dall'ordine agiscono e dispongono per l'erba le spade coperte e nascondono gli scudi latenti. Perciò quando scendendo fecero un frastuono lungo i lidi ricurvi, Miseno dà il segnale dall'alta vedetta col bronzo cavo. I compagni attaccano e tentano strani scontri, colpire col ferro gli orribili uccelli del mare. Ma non ricevono alcun colpo alle penne ne ferite al dorso, e con celere fuga volando sotto le stelle lasciano semidivotata la mensa ed orme schifose. Sola Celeno si fermò su altissima rupe, funesta indovina, esplode dal petto questa frase: "Pure una guerra, Laomenziadi, vi prepate forse a scatenare oltre la strage di buoi e giovenchi ammazzati, una guerra, e cacciare dal regno paterno le incolpevoli Arpie? Accoglietele dunque ficcatele in cuore queste mie parole, che il padre onnipotente predisse a Febo, e Apollo Febo a me, io la più grande delle Furie ve le svelo. Cercate con la rotta l'Italia e la invocate coi venti: andrete in Italia e sarà permesso entrare nei porti. Ma non cingerete con mura la città data prima che la fame crudele e l'offesa del nostro attacco vi costringa per i mali a consumare le mense divorate." Disse, e levatasi con le ali si rifugiò nella selva. Ma sangue gelido per la paura il sangue si ghiacciò ai compagni: i cuori crollarono, neè più ormai con armi, ma con voti e preghiere vogliono chiedere pace, sia che siano dee che orribili e crudeli uccelli. Ed il padre Anchise, stese le palme, dal lido chiama le grandi potenze e indice riti dovuti: "O dei, allontanate le minacce; dei, togliete tale sorte e voi, sereni, salvaate i pii."Poi ordina di levare la fune dal lido e allentare le corde srotolate. I Noti tendono le vele: fuggiamo sulle onde spumeggianti, dove e vento e nocchiero chiamava la rotta.
UNA SOSTA AD AZIO (3.270 - 293) Ormai inmezzo al mare appare Zacinto selvosa e Dulichio e Same e Nerito scoscesa di rocce. Sfuggiamo gli scogli di Itaca, regni laerzii, e malediciamo la terra nutrice del crudele Ulisse. Subito e le piovose cime del monte Leucate e si apre Apollo temuto dai marinai. Stanchi lo cerchiamo e ci avviciniamo alla piccola città; l'ancora è gettata da prora, le poppe stanno sul lido. Impadronitici finalmente della terra insperata ci purifichiamo per Giove e incendiamo gli altari di voti, e festeggiamo i lidi di Azio coi giochi iliaci. I compagni spogliati, scorrendo l'olio, praticano i giochi padri: è bello aver superato tante città argoliche ed aver affrontato la fuga in mezzo ai nemici. Intanto il sole avvolge un grande anno ed il glaciale inverno con gli Aquiloni inasprisce le onde. Attacco sui battenti anteriori lo scudo di cavo bronzo, armamento del grande Abante, e segno il fatto con un verso: Enea (offre) queste armi (tolte) ai Danai vincitori. Poi ordino di lasciare i porti e sedere sui banchi. A gara i compagni battono il mare e spazzano le piane: 390 Subito lasciamo le aeree rocche dei Feaci, raggiungiamo i lidi dell'Epiro ed entriamo nel porto caonio e ci avviciniamo alla eccelsa città di Butroto.
ANDROMACA ED ELENO ( 3. 294 - 355) Qui un'incredibile fama mi riempie le orecchie, che il priamide Eleno regna in città graie 295 impafronitosi delle nozze e degli scettri dell'eacide Pirro, e che Andromaca è passata di nuovo ad un marito della patria. Stupii, il cuore acceso da singolare amore di parlare all'uomo e conoscere sì grandi sorti. Avanzo dal porto lasciando flotte e lidi, quando per caso Andromaca libava alle ceneri vivande e tristi doni davanti alla città in un bosco alla riva d'un falso Simoenta ed invocava i Mani presso il tumulo di Ettore, che vuoto aveva consacrato con verde zolla e due altari, motivo per le lacrime. Come mi osservò arrivare e fuor di sè vide attorno le armi troiane, atterrita per le garndi visioni sbiancò in mezzo al volto, el calore lasciò le ossa. Sviene e a stento finalmente dopo lungo tempo parla: "Ti presenti a me come vera forma, vero nunzio, figlio di dea? sei forse vivo? o se la grande luce fuggì, Ettore dov'è?" disse e versò lacrime e riempì tutto il luogo di pianto. A stento rispondo poche parole a lei che freme e turbato parlo con poche parole: "Vivo certamente, ma conduco una vita ai limiti estremi; non dubitare, infatti vedi cose vere. Ahimè, quale sorte ti accoglie, privata di sì grande marito, o quale fortuna abbastanza degna ti visitò, o Andromaca di Ettore? serbi forse le nozze di Pirro?" Abbassò il volto e a voce bassa parlò: "O sola fra le altre felice vergine priamea, obblifgata a morire sotto le alte mura di Troia presso il tumulo nemico, che non soffrì nessun sorteggio nè prigioniera toccò il letto del padrone vincitore. Noi, incendiata la città, condotte per diversi mari costrette alla schiavitù sopportammo l'orgoglio ed il superbo giovane della stirpe achillea; ma lui poi seguendo Ermione ledea e nozze lacedemonie lasciò me schiava da possedere allo schiavo Eleno ma lo coglie, incauto, Oreste infuriato per il grande amore della moglie strappata e scosso dalle furie dei delitti e lo sgozza presso gli altari paterni. Per la morte di Neottolemo una parte fatta dei regni passò ad Eleno, che chiamò caonie le piane e tutta la Caonia dal nome troiano di Caone, ed aggiunse sulle cime questa Pergamo, rocca iliaca. Ma te quale rotta diedero i venti, quqli fati? o quale dio spinse alle nostre spiagge te ignaro? E il piccolo Ascanio? vive forse e si pasce dell'aria? chi ormai da Troia ti ... che amore c'è nel bambino della madre perduta? forse che il padre Enea e lo zio Ettore lo spinge all'antico eroismo ed al coraggio virile?" Così prorompeva piangendo ed invano faceva lunghi lamenti, quando dalle mura l'eroe priamide Eleno, accopagnandolo molti, si presenta, e riconosce i suoi e lieto li conduce alle porte, e versa lacrime, molto, tra le singole parole. Avanzo e riconosco una piccola Troia e Pergamo imitante la grande ed un ruscello secco col nome di Xanto, ed abbraccio le soglie della porta Scea; Anche i Teucri insieme godono della città alleata. Il re li accoglieva in ampli porticati: in mezzo alla sala libavano coppe d'oro di Bcco, apparecchiate vivande e tenevano tazze
LE PROFEZIE DI ELENO ( 3. 356 - 471) Ed ormai un giorno ed altro giorno passò, i venti chiaman le vele e la tela si gonfia del ricco Austro: avvicino il vate con queste parole e così prego: " Figlio di Troia, interprete degli dei, che le potenze d'Apollo, che i tripodi ed i lauri di Clario, che le stelle senti e le lingue degli uccelli ed i presagi del rapido volo, orsù parla, infatti ogni auspicio favorevole predisse la rotta, e tutti gli dei col volere consigliarono cercare l'Italia e tentare terre remote; l'arpia Celeno unica profetizza un prodigio funesto a dirsi ed annuncia tristi ire ed una fame tremenda, quali pericoli evito per primi? o cseguendo che cosa potrei superare sì grandi affanni? Qui Eleno prima, uccisi i giovenchi, secondo il rito invoca la pace degli dei e scioglie le bende del sacro capo, e lui conduce, o Febo, per mano alle tue porte me dubbioso per la immensa potenza, ed infine il sacerdote così profetizza dalla bocca divina: "Figlio di dea, (infatti è chiara certezza che tu vai per mare con maggiori auspici); così il re degli dei sorteggia i fati e volle le vicende, questo piano si compie, rivelerò tra molte parole poche cose, perchè più sicuro possa visitare acque hospitali e fermarti nel porto ausonio; le Parche impediscono che Eleno sappia altro e la saturnia Giunone vieta di parlare. All'inizio ti prepari a toccare l'Italia, che tu già credi prossima, ed i porti vicini, o ignaro, una lunga via impervia lontano divide da lunghe terre. C'è da piegare il remo in onda trinacria e da visitare colle navi l'acqua del mare Ausonio, ed i laghi infernali, e l'sola Eea di Circe, prima che tu possa fondare suterra sicura una città. Ti dirò i segni, tu li terrai serbati in mente: quando davanti a te preoccupato presso l'onda di un fiume ignoto una enorme scrofa trovata sotto gli elci del lido giacerà avendo partorito trenta capi, bianca, sdraiata al suolo, attorno alle mammele trenta piccoli bianchi, quello sarà il luogo della città, quella la certa quiete degli affanni. Tu non temere i futuri morsi delle mense: i fati troveranno la via e Apollo invocato assisterà. Ma fuggi queste terre e questa spiaggia del lido italo, che vicino è bagnato dalla marea della nostra acqua; tutte le mura sono abitate dai malvagi Grai. Qui anche i Locri narici posero le mura ed il lizio Idomeneo occupò le piane sallentine di soldataglia; qui la piccola città del capo Melibeo di Filottete, Petelia, è appoggiata al muro. Anzi quando le flotte passate oltre le onde staranno e fatti gli altari ormai scioglierai voti sul lido, vela le chiome coperto di manto purpureo, che non capiti qualche aspetto ostile e turbi gli auspici tra i sacri fuochi nella cerimonia degli dei. I soci mantengano questo rito, questo anche tu; in questo cerimoniale restino puri i nipoti. Ma quando il vento ti avrà spinto, partito, alla spiaggia sicula e si apriranno i recinti dell'angusto Peloro, da te la terra sinistra, le acque sinistre sian seguite nel lungo circuito; fuggi il lido destro e le onde. Raccontano che un tempo questi luoghi sconvolti da forza e vasta frana (tanto una lunga vetustà di tempi può cambiare) sussultarono, diventando subito le due terre una sola: in mezzo venne con forza il mare e con le onde troncò il lato esperio dal siculo, e bagnò con angusto flusso i campi e le città separate dal lido. Scilla occupa il lato destro, il sinistro l'implacabile Cariddi, e nel profondo gorgo del baratro tre volte risucchia i vasti flutti nell'abisso e di nuovo li scaglia all'aria alterni e con l'onda sferza le stelle. Ma una grotta costringe Scilla in ciechi nascondigli scoprendo le bocche e trascinando le navi sulle rocce. In alto volto di persona e ragazza dal bel petto fino al pube, in basso pistrice dal corpo enorme unita con code di delfini a ventre di lupo. Conviene percorrere le cime del trinacrio Pachino scappando, e piegare attorno lunghe rotte, che aver visto una volta sotto il vasto antro l'orribile Scilla e le rocce risuonanti di lividi cani. Inoltre, se il vate Eleno ha qualche saggezza, se ha qualche fiducia, se Apollo gli empie l'animo di cose vere, proclamerò una cosa a te, figlio di dea, una sola per tutte, e riprendendola ancora e ancora esorterò, adora anzitutto con supplica la maestà della grande Giunone, a Giunone canta voti lieto e vinci la potente signora con supplici doni: così finalmente vittorioso, lasciata la Trinacria, sarai mandato sui territori itali. Qui giunto comme giungerai alla città di Cuma ed ai laghi divini ed all?averno risuonante di selve, vedrai l'invasata profetessa, ai piedi d'una rupe profetizza i fati ed affida alle foglie segni e nomi. Qualsiasi verso la vergine abbia scritto sulle foglie li mette in ordine e li lascia chiusi nella grotta: essi restano immobili al posto ne cambiano dall'ordine. Ma quando una leggera brezza, giratosi il cardine, li ha colpiti e la porta ha sconvolto le tenere fronde, mai più si cura di prenderli, volando nella cava roccia nè metterli a posto ed unire i versi: sconsiderati se ne vanno ed odiano la casa della Sibilla. Qui nessun dispendio di tempo ti sia di grande importanza, anche se i compagni sgridino e con forza la rotta chiami al largo le vele e possa saziare le pieghe favorevoli, perchè non avvicini la profetessa e chieda con preghiere che lei stessa pronunci gli oracoli e volente sciolga la voce e le labbra. Ella ti spiegherà i popoli d'Italia e le guerre future e come fuggire e sopportare ogni affanno, e venerata darà rotte sicure Queste son le cose che sia lecito consigliar con la nostra voce. Orsù va' e con le imprese porta la grande Troia alle stelle". Dopo che il vate pronunciò queste parole con volto amico, ancora ordina che sian portate alle navi doni pesanti di oro e d'avorio lavorato e stipa nelle carene molto argento e catini dodonei, una corazza intessuta a maglie e triplice d'oro, ed il cono di splendido elmo e creste frondeggianti, armi di Neottolemo. Anche il padre ha i suoi doni. Aggiunge cavalli, ed aggiunge cocchieri, completa il remeggio, ed insieme fornisce i compagni di armi.
COMMIATO E PARTENZA ( 3. 472 - 505) Frattanto Anchise ordinava di preparare la flotta con remi, che non capitasse un ritardo al vento soffiante. Il profeta di Febo lo saluta con molto onore: "Anchise, degnato del superbo matrimonio di Venere, attenzione degli dei, due volte strappato dai crolli pergamenei, ecco a te la terra di Ausonia: prendila con le vele. e tuttavia è necessario passarla oltre per mare: quella parte d'Ausonia che Apollo apre lontano. Va', dice, felice per la virtù del figlio. Perchè oltre mi spingo e parlando freno gli Austri nascenti?" Nè di meno Andromaca triste per l'estrema partenza porta vesti tessute di trama d'oro e per Ascanio una clamide frigia nè è inferiore di offerte e carica di doni tessili e così dice: "Accogli anche questi, che siano i ricordi delle mie mani, fanciullo ed attestino il grande amore di Andromaca, sposa ettorea. Prendi gli ultimi doni dei tuoi, oh per me unica immagine del mio Astianatte. Così gli occhi, così lui le mani, così il volto aveva; ed ora crescerebbe con te di pari età." Costoro io partendo salutavo, rinate le lacrime: "Vivete felici, per i quali la propria sorte è già compiuta: noi siam chiamati da altre in altre sorti. Per voi nacque la pace: nessuna acqua di mare da solcare, nè da cercare i campi d'Ausonia, sempre indietreggianti. Voi vedete la vista dello Xanto e Troia, che le vostre mani han fatto, prego con migliori auspici e che sian stati meno buoni ai Grai. Se mai raggiungerò il Tevere ed i campi vicini del Tevere e vedrò le mura date al mio popolo, allora faremo le città gemelle ed i popoli amici, l'Esperia all'Epiro, per i i quali lostesso Padre Dardano e le stesse sorti, (faremo) unica di cuori una e l'altra Troia: tale premura conservi i nostri nipoti."
LA TERRA D'ITALIA (3. 506 - 546) Siam portati per mare fino ai vicini Cerauni, da cui la strada e la rotta brevissima tra l'onde per l'Italia. Intanto il sole cade ed i monti opachi si coprono d'ombra. Ci stendiamo presso l'onda nel grembo della desiderata terra sorteggiati i remi e qua e là sulla secca spiaggia curiamo i corpi, il sonno irrora le stanche membra. Nè ancora la Notte spinta dalle Ore affrontava metà del giro: non pigro Palinuro s'alza dal giaciglio ed esplora tutti i venti e coglie l'aria con le orecchie; nota tutte le stelle correnti nel tacito cielo, Arturo e le Iadi piovose ed i gemelli Trioni, ed esamina Orione armato d'oro. Dopo che vede stare tutto nel cielo sereno, dalla poppa dà il segnale squillante; noi muoviamo il campo e tentiamo la via ed apriamo le ali delle vele. Ed ormai l'Aurora, fugate le stelle, rosseggiava, quando lontano vediamo colli oscuri e bassa l'Italia. Italia per primo grida Acate, l'Italia salutano i compagni con lieto clamore. Allora il padre Anchise rivestì fino all'orlo una grande coppa e la riempì di vino, ed invocò gli dei stando sull'alta poppa: "Dei potenti del mare e della terra e delle tempeste, offrite col vento una via facile e soffiate favorevoli." Le brezze bramate crescono ed ormai più vicino si apre il porto, e sulla rocca appare il tempio di Minerva; i compagni raccolgon le vele e girano le prore ai lidi. Il porto curvato ad arco dal flutto orientale, gli scogli pronunciati spumeggiano di spruzzo salmastro, egli però si cela: gli scogli turriti slanciano braccia conmura gemelle ed il tempio indietreggia dal lido. Qui quattro, primo augurio, quattro cavalli vidi brucanti la piana in largo, di niveo candore. E il padre Anchise "Guerra, oterra ospite, porti: i cavalli si armano per la guerra, questi armenti minacciano guerra. Ma pure un tempo abituati a sottomettersi al cocchio i quadrupedi e portare col giogo i freni concordi: speranza anche di pace" dice. Allora preghiamo le sacre potenze di Pallade armisonante, che per prima ci accolse festanti, e davanti agli altari ci veliamo col manto frigio, e coi consigli di Eleno, che aveva dato importantissimi, ritualmente bruciamo a Giunone ausonia le offerte ordinate.
LA TERRA DEI CICLOPI ( 3. 547 - 582) Nessun indugio, subito compiuti i voti per ordine giriamo le punte delle antenne con vele, e lasciamo le case dei Graiugeni ei i campi sospetti. Di qui si vede iò golfo di Taranto erculea, se è vera la fama, davanti si leva la divina Lacinia, e le rocche caulonie e lo Squillace navifrago. Allora lontano dal flutto si vede l'Etna trinacria, e sentiamo un grande sussulto del mare e le rocce battute e lungi le voci rotte alle spiagge, le secche sussultano e le sabbie son mischiate dalla marea. Ed il padre Anchise: " Certamente è qui quella Cariddi: Eleno profetizzava questi scogli, queste orrende rocce. Toglietevi, compagni, ed insieme alzatevi sui remi." Non di meno comandati eseguono e per primo Palinuro volse la prora stridente alle onde di sinistra; tutto il gruppo con venti e remi si volse a sinistra. Corvatosi il gorgo, siam alzati al cielo e parimenti, sottrattasi l'onda, sprofondammo in fondo ai Mani. Tre volte gli scogli tra le cave rupi diedero fragore, tre volte vedemmo la spuma scagliata e le stelle stillanti. Frattanto il vento col sole ci lascia stanchi, ignari della via scivoliamo alle spiagge dei Ciclopi. Il porto stesso enorme ed immoto dall'accesso dei venti: ma vicino l'Etna con terribili scosse tuona, talvolta esplodee nell'aria una nube nera fumante di bufera di pece e di fiamma incandescente. ed alza globi di fiamme e lambisce le stelle; a volte solleva eruttando scogli e viscere del monte strappate, ed accumula rocce liquefatte sotto le brezze con un gemito e ribolle fin dal massimo fondo. E' fama che il corpo di Encelado semiarso dal fulmine sia bloccato da questa mole e sopra l'ingente Etna imposta dai rotti camini emetta la fiamma, ed ogni volta che muti il fianco stanco, tutta la Trinacria trema con mormorio ed intesse il cielo di fumo.
IL MISERO GRECO ACHEMENIDE ( 3. 583 -654) Quella notte coperti nei boschi sopportiamo orribili prodigi, nè vediamo quale causa dia rumore. Infatti non c'eran i fuochi degli astri nè il cielo lucido di etere stellare, ma nubi nell'oscuro cielo, ed una notte fosca teneva la luna in un nembo. Il giorno seguente sorgeva appena e l'Aurora aveva cacciato dal cielo orientale l'umida ombra, quando d'improvviso dai boschi una strana forma colpita da estrema macilenza e miserabile d'aspetto, di un uomo sconosciuto avanza e sulla spiaggia tende supplice le mani. Lo osserviamo. Crudele sporcizia e barba incolta, un vestiario tenuto da spine: ma per il resto Graio, ed un tempo mandato a Troia in armi patrie. Ma egli quando vide lontano aspetti dardanici ed arme troiane, un poco atterrito alla vista esitò e trattenne il passo; poi a precipizio sul lido si portò con pianto e preghiere: "Per le stelle scongiuro, per i celesti e per questo respirabile luce del cielo, prendetemi, Teucri, conducetemi in qualsiasi terra Questo basterà. So e confesso che io, uno delle flotte danae con la guerra ho assalito i Penati iliaci. E per questo, se sì grande è l'oltraggio del nostro delitto, buttatemi tra i flutti e immergetemi nel vasto mare; se muoio, sarà dolce esser morti per mani di uomini. Aveva detto ed abbracciate le ginocchia prostrandosi si avvinghiava alle ginocchia.Esortiamo a dire chi sia, da quale stirpe nato, a dichiarare quale sorte lo perseguiti. Lo stesso padre Anchise, indugiando non molto, dà la destra al giovane e rassicura l'animo con immediata garanzia. Egli finalmente, deposta la paura, parla così: "Sono di Itaca, mia patria, compagno dell'infelice Ulisse, di nome Achemenide, partito per Troia, essendo il genitore Adamasto povero, oh foosse rimasta la sorte. Qui mi lasciarono i compagni, mentre impauriti abbandonavano le crudeli soglie, immemori, nella vasta spelonca del Ciclope. Una casa buia dentro, enorme, con marciume e cibi insanguinati. Lui alto e tocca le stelle eccelse, o dei allontanate tale peste dalle terre. Nè gradevole alla vista nè cortese di parola con qualcuno; si ciba delle viscere e del nero sangue di infelici. Lo vidi io quando disteso in mezzo all'antro spaccava con la grande mano due individui presi dal nostro gruppo, e le porte s'inondavano di marciume spruzzato; lo vidi quando mangiava le membra grondanti di nero putridume e gli arti tiepidi tremavano sotto i denti. Senz'altro no impunemente, nè Ulisse sopportò tali cose o si scordò di sè in sì grande pericolo. Infatti appena riempito di cibi e sepolto nel vino posò il collo piegato e giacque per l'antro, immenso, eruttando marciume e pezzi mescolati a vino insanguinato nel sonno, noi, pregate le grandi potenze e sorteggiate le parti insieme ci allarghiamo attorno e trivelliamo con palo aguzzo l'enorme occhio, che solo si celava sotto la fronte torva, come scudo argolico lampada febea e finalmente lieti vendichiamo le ombre dei compagni. Ma fuggite, o miseri, fuggite e dal lido rompete la fune. Infatti tale e sì grande Polifemo chiude nel cavo antro le lanute pecore e preme le mammelle, cento altri orrendi Ciclopi abitano presso questi curvi lidi in gruppo e vagano per gli alti monti. Ormai tre corna della luna si riempiono di luce da quando nei boschi tra deserte tane di belve e vaste case trascino la vita ed osservo dalla roccia i Ciclopi e temo il rumore dei piedi e la voce. I rami danno vitto sterile, bacche e dure cornie e le erbe, strappate le radici nutrono. Osservando tutto anzitutto ho visto questa flotta che giungeva ai lidi. Mi affidai a questa, qualunque fosse stata: è sufficiente esser sfuggito a gente sacrilega. Voi piuttosto toglietemi questa vita con qualsiasi morte."
POLIFEMO ED I CICLOPI (3. 655- 691) Appena aveva così parlato che sulla sommità del monte vediamo muoversi lo stesso Polifemo con la vasta mole pastore tra le pecore e dirigersi tra i lidi conosciuti. Mostro orrendo, informe, enorme, cui era tolto l'occhio. Un pino troncato guida la mano assicura le orme; l'accompagnano pecore lanose; quella la sola passione e consolazione del male. Dopo che toccò i flutti profondi e giunse alle acque, allora lavò il fluido sangue dell'occhio cavato. Fremendo coi denti per il gemito ed avanza poi in mezzo all'acqua e neppure il flutto bagnò gli alti fianchi. Noi trepidanti ci decidiamo ad accelerare la fuga di lì, raccolto il supplice così benemerito e tagliare taciti la fune,e chini sui remi vincenti le acque. Sentì ed al suon della voce volse le orme. Ma poichè non è data alcuna possibilità d'afferraci con la destra nè è capace inseguendo di eguagliare i flutti ionii alza un urlo immenso, per cui il mare e tutte le onde tremarono, profondamente atterrita è la terra d'Italia e l'Etna nelle tortuose caverne mugghiò. Ma il popolo dei Ciclopi chiamato dai boschi e dagli alti monti corre ai porti e riempie le spiagge. Vediamo i fratelli etnei ergersi con l'occhio invano torvo che portavan le alte teste al cielo, orrenda adunata: come quando coll'eccelsa cima le aeree querce o i coniferi cipressi si alzarono, alta selva di Giove o bosco di Diana. Un'intensa paura ci muove rapidi ovunque a svolger le funi e tendere le vele ai venti favorevoli. Ma gli ordini di Eleno avvertono e tra Scilla e Cariddi, doppiamente via in un piccolo intervallo di morte, se non tengo la rotta: è sicuro dar le vele all'indietro. Ma ecco Borea inviato dal piccolo stretto di Peloro si presenta: oltrepasso le porte di viva roccia di Pantagia, il golfo di Megara e Tapso distesa. Achemenide, compagno di Ulisse infelice, mostrava tali spiagge percorse riandandole a ritroso.
LA MORTE DEL PADRE ANCHISE ( 3. 687 - 718) Di fronte al golfo sicanio giace, stesa davanti, un'isola contro l'ondoso Plemurio; gli antichi diedero il nome di Ortigia. E' fama che Alfeo, fiume dell'Elide, avesse qui rese occulte le vie sotto il mare, egli ora, Aretusa, sulla tua bocca si unisce alle onde sicule. Obligati veneriamo le grandi potenze del luogo e di lì supero il ricchissimo suolo dell'Eloro stagnante. Di qui rasentiamo le alte rocce e le protese rupi di Pachino e da lontano appare Camerina mai autorizzata dai fati a muoversi, ed i campi Geloi, e la grandiosa Gela chiamata dal nome del fiume. Di lì alta Agrigento mostra da lontano le grandissime mura, un tempo fattrice di magnanimi cavalli; e, dati i venti, lascio te, palmosa Selinunte, e percorro le secche lilibee aspre per le cieche rocce. Di qui mi accoglie il porto e la spiaggia che non dà gioia di Drepano. Qui spinto da tante bufere di mare, ahimè, perdo il padre, sollievo di ogni affanno e sorte, Anchise. Qui, padre ottimo, mi abbandoni stanco, ahimè, invano strappato da sì gravi pericoli. Nè il vate Eleno, pur predicendo molte cose orrende, mi predisse questi lutti, nemmeno la crudele Celeno. Qui l'ultima affanno, questa la meta delle lunghe vie, di qui partito un dio mi spinse alle vostre spiagge. Così il padre Enea solo raccontava, tutti attenti, i fati degli dei e rivelava le rotte. Tacque infine e qui si fermò col racconto e la fine.
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